Parlarne con Sally
Abbiamo fatto due parole con Sally Rooney, a proposito del suo nuovo romanzo e della sua scrittura
I libri che legge mentre scrive, i pensieri su letteratura e stile; ma anche le relazioni sentimentali, il rapporto di una generazione con l’idea di famiglia e il desiderio di maternità. In questa chiacchiera con Sally Rooney, tradotta da Maurizia Balmelli, l’autrice ci parla di Dove sei, mondo bello (e non solo).
Che ne dici di iniziare dal titolo del libro? (Le tue note al testo ci informano che si tratta di una traduzione di un verso di Schiller, successivamente musicato da Schubert e poi scelto come titolo dalla Biennale di Liverpool 2018, dove ha catturato la tua attenzione.) Mi chiedo: che implicazioni ha per te, e quali sentimenti e pensieri credi che possa suscitare nel lettore?
La prima volta che mi sono imbattuta in quel verso stavo ascoltando un programma della BBC sulla Biennale di Liverpool. Il programma, una puntata della Saturday Review, ha diffuso una clip audio di Ian Bostridge e Julius Drake che interpretano il Lied D677 di Schubert, e l’ho trovato di una bellezza insuperabile. Quel verso mi è rimasto in testa. Era l’estate del 2018, e io iniziavo a lavorare a un progetto che più tardi sarebbe diventato questo romanzo. In autunno ho avuto occasione di visitare la Biennale, e più o meno è stato lì che ho deciso di intitolare il mio libro allo stesso modo.
Ovviamente quel verso sottintende un certo disincanto nei confronti della vita contemporanea. Se avulso dal contesto, questo disincanto potrebbe essere decisamente nostalgico – immaginando di collocare il “mondo bello” in un momento storico specifico – oppure rimanere vago e nebuloso. Per un certo periodo la ricorrenza di questo tema nella storia della letteratura mi ha affascinata: la tradizione dell’“ubi sunt” nella poesia latina, la rilevanza di rovine e decadimento nella letteratura anglosassone, fino ai poeti settecenteschi come Schiller, che comparavano la relativa povertà estetica dell’era moderna con la fantomatica magnificenza dell’antichità. Credo che quest’idea di un mondo bello che scompare possa suonare abbastanza contemporanea, per via del momento politico e dell’emergenza climatica in cui viviamo. In realtà la nostra terminologia culturale per quest’esperienza esiste da ben prima dell’attuale congiuntura, e questo mi pare interessante.
Dove sei, mondo bello ruota intorno a quattro personaggi, i cui legami ci offrono il ritratto di relazioni consolidate e altre appena nate, di amicizie tra persone dello stesso sesso o di sesso opposto, di amore romantico e di una specie più indefinibile di amore platonico. Nel modo in cui presenti le varie permutazioni dell’attaccamento e dell’affetto tra i personaggi c’è qualcosa di molto giocoso. Puoi raccontarci come hai affrontato la questione?
Mi ci è voluto molto tempo per capire come raccontare la storia di questo romanzo. Non è stato facile rispondere alle domande fondamentali cui un romanziere si trova a dover rispondere: è la storia di chi, quando inizia, quando finisce, chi la racconta e così via. Stavolta, nessuna delle tecniche narrative che avevo usato nei miei due libri precedenti – narrazione in prima persona e al passato nel primo, in terza persona limitata e al presente nel secondo – mi sembrava funzionare. Perché la storia che volevo raccontare avesse un senso dovevo mettere a punto un nuovo tipo di voce narrante (o nuovo per me, quantomeno). E al tempo stesso, la storia è molto semplice. Il romanzo narra di quattro personaggi e delle relazioni tra loro. Dovevo solo sforzarmi di trovare la forma, la struttura e la voce adatte a dar vita al romanzo che sapevo di voler scrivere.
Uno dei quattro personaggi del romanzo – quello che forse saremmo portati a considerare il protagonista – è Alice, una romanziera. I romanzi che mettono in scena dei romanzieri sono spesso un terreno scivoloso. Cosa ti ha spinta ad arrischiarcisi?
Prima di tutto è forse il caso di dire che a mio parere il romanzo non ha un protagonista. Gran parte del libro è rigidamente strutturato in “serie” di quattro capitoli ciascuna, distribuiti equamente tra i quattro filoni narrativi del romanzo. Il mio libro precedente aveva una struttura fissa analoga, che alternava i punti di vista dei due protagonisti – ma una parte dei lettori ne ha comunque ricavato l’impressione che uno o l’altro personaggio fosse il “vero” protagonista. Credo che in una certa misura si tratti di un’interpretazione soggettiva.
Ma per rispondere alla domanda: tutti i romanzi mettono in scena dei romanzieri. Il romanziere si nasconderà magari sotto le spoglie del narratore, o addirittura oltre quest’ultimo in forma di coscienza autoriale strutturante. Comunque sia, nascosto o meno, non può mai essere del tutto assente. In un certo senso, scrivere libri è solo un lavoro, e in generale non credo che ai lettori importi granché sapere cosa fanno per vivere i personaggi principali di un romanzo –purché il romanzo sia interessante. Non so se esistano davvero dei lettori che per principio rifiutano di leggere di romanzieri, ma se così fosse, il genere romanzo forse non fa per loro.
Quanto a cosa mi abbia spinta a scrivere di una romanziera: i miei libri precedenti erano parzialmente ambientati in scuole e università, e si dà il caso che quando li ho scritti non avevo ancora trascorso molto tempo fuori dall’ambiente scolastico o universitario. Da allora, ho passato la maggior parte del mio tempo a scrivere ed editare. E adesso una delle protagoniste di questo libro fa la scrittrice e l’altra la redattrice. Per cui credo sia corretto dire che scrivo di quel che conosco. I fatti di questo romanzo sono, come nei miei due romanzi precedenti, interamente fittizi, ma il mondo del libro si basa sul mondo reale in cui ho realmente vissuto. La mia esperienza del mondo è chiaramente molto limitata, e nelle mie opere di finzione scrivo solo di un numero molto limitato di cose. Ma va bene così – ci sono un sacco di scrittori che scrivono di un sacco di altre cose.
Alice e Eileen hanno spesso lunghe discussioni via e-mail su politica e società che richiamano gli scambi tra Frances e Bobbi in Parlarne tra amici. In narrativa, restituire dibattiti e idee può essere difficile – per te come funziona?
Credo che in questo libro le vite intellettuali dei personaggi centrali siano più significative di quanto non fossero nei miei lavori precedenti. Un po’ potrebbe essere perché i personaggi sono più grandi, e hanno avuto il tempo di leggere ed elaborare le loro idee in modo più esteso. Un po’ è perché i due personaggi centrali femminili lavorano entrambi in ambito intellettuale – una come scrittrice e l’altra come redattrice. Ma penso anche che questo romanzo approfondisca la natura dell’amicizia intellettuale. In particolare m’interessava l’interazione tra la relazione di Eileen e Alice e le loro rispettive idee – il modo in cui i loro pensieri e le loro opinioni si riflettono sulla loro amicizia, e le peculiarità dell’amicizia informano l’elaborazione delle loro idee. Per cui nel libro c’è una specie di oscillazione, un movimento tra pensiero e sentimento e ritorno – un movimento che io considero parte integrante della trama, se di trama vogliamo parlare.
Alice ha avuto un crollo psicologico e ha quindi lasciato Dublino per una vita molto più solitaria sulla costa. È una cosa rispetto alla quale, alla stregua di altri personaggi, nutre un sentimento ambivalente: è una rinuncia alla vita, o un passo verso qualcosa di nuovo? Tu cosa volevi suggerire?
In un certo senso la decisione di Alice di lasciare Dublino è l’evento scatenante del romanzo. Fin dalle prime pagine del libro sappiamo che Eileen e Alice sono state coinquiline per anni quando erano ventenni, e che dopo hanno continuato a vivere nella stessa città, forse dando quella prossimità per scontata. Il romanzo comincia dopo che Alice si è trasferita in un paese costiero nella Contea di Mayo, mentre Eileen vive e lavora a Dublino come prima. A dividerle ci sono poche ore di macchina, ma nessuna delle due guida, e i trasporti pubblici sono scarsi. Si trovano così a doversi confrontare con la questione di come e quando si rivedranno. Il viaggio in sé sarebbe un ostacolo di poco conto, ma col procedere del romanzo assume un rilievo sproporzionato.
Quanto a se Alice abbia o meno fatto la scelta “giusta” trasferendosi in un paesino lontano da tutti i suoi amici e famigliari, non penso che mi interessasse esprimere un giudizio di valore di questo genere. Va da sé che nel suo nuovo ambiente Alice è piuttosto isolata. Ma forse un relativo isolamento è ciò di cui ha bisogno. Più che decidere se sia o meno una bella vita, mi interessava osservare il suo tentativo di rifarsene una. Quella è la vita che ha, e per quel che attiene al romanzo è l’unica cosa che conta.
Come in Persone normali, la differenza tra Dublino e il resto dell’Irlanda – nonché la percezione che i dublinesi hanno dei culchies (cioè i loro connazionali di estrazione rurale) e viceversa – è un elemento importante nell’ambientazione del romanzo. E quanto è importante per il tessuto della tua scrittura?
In questo romanzo credo che ci sia una differenza significativa tra la città e la campagna. Ma più che immaginaria, la differenza è fattuale: due dei personaggi vivono in un piccolo centro e gli altri due conducono due vite tra loro molto diverse in una capitale. La distanza effettiva che li separa, e le inevitabili differenze nei rispettivi stili di vita, sono un aspetto importante del libro. Le percezioni di disparità culturale, tuttavia, non entrano in gioco più di tanto. Tre dei quattro protagonisti sono (come me) originari dell’Irlanda dell’ovest; e comunque l’unico dublinese adesso vive nella contea di Mayo. Dublino è una città relativamente cosmopolita, e naturalmente molta gente che ci vive non ci è nata. Credo che questo libro sia più imperniato sulla scelta, o sulla necessità di scegliere, dove vivere e che tipo di vita avere.
Alice inizia una relazione vagamente ambigua con Felix, che ha incontrato online; tra i due sembra instaurarsi un forte legame, benché si indispongano a vicenda. La loro storia è intessuta di dinamiche di classe, differenze economiche e di educazione – altro aspetto già affrontato in Persone normali. Che cosa volevi esplorare?
Di sicuro la relazione che Alice ha con Felix – il quale non ha fatto l’università e lavora in un magazzino di spedizione merci della zona – si struttura in parte sull’ineguaglianza economica. A ben guardare, però, mi sembra che le dinamiche di classe siano presenti in tutte le relazioni centrali del romanzo. Simon e Eileen si conoscono da ragazzini, e per certi versi la relazione tra le loro rispettive famiglie racconta una storia di disuguaglianza sociale. E se da studentesse Eileen e Alice si sono incontrate su una base relativamente paritetica, il successo della seconda l’ha proiettata in una posizione di enorme privilegio economico, mentre la prima fatica a pagare l’affitto. A interessarmi è la pressione che queste disuguaglianze esercitano sulle vite e sulle relazioni dei personaggi. Non sto veramente cercando di offrire una chiosa puntuale sull’ingiustizia della disparità classe, anche se personalmente la ritengo profondamente ingiusta. Su questo, i lettori potranno trarre ciascuno le proprie conclusioni. Quello che mi interessa è che i miei personaggi sono costretti a vivere queste disuguaglianze a prescindere dalla loro posizione intellettuale al riguardo. In un certo senso, le conseguenze che ciò comporta per le loro vite emotive, e per la loro percezione di sé, costituiscono parte dell’azione drammatica del romanzo.
Nei confronti delle relazioni sentimentali e della maternità, Alice e Eileen nutrono entrambe sentimenti complessi. Naturalmente non si tratta di dilemmi nuovi, ma mi chiedo: pensi che la generazione a cui i tuoi personaggi appartengono debba affrontare problematiche specifiche?
Mi ha sempre interessato indagare la misura in cui storia e cultura forgiano le nostre relazioni intime. Per cui sì, considerata la velocità dei cambiamenti tecnologici e culturali, credo che alcune idee che i miei personaggi hanno dell’amore e della maternità pertengano alla loro generazione. La prospettiva di avere figli nel contesto specifico dell’emergenza climatica preoccupa entrambe le protagoniste, ed entrambe si trovano alle prese con una cultura sessuale e sentimentale profondamente diversa da quella affrontata dalla generazione dei loro genitori. D’altra parte, non voglio che i loro problemi appaiano troppo peculiari. Ogni generazione sperimenta il cambiamento e deve pensare a un modo per attraversarlo. E tuttavia mi interessano alcune sfide specifiche di questo nostro momento culturale, così come il modo in cui a tali sfide i miei personaggi potrebbero reagire.
I personaggi hanno inoltre dei rapporti complicati con le loro famiglie, evocate perlopiù in modo indiretto: la sorella di Eileen che sta per sposarsi, il fratello di Felix. Intendi prendere le distanze dalla concezione della famiglia nucleare come motore dei romanzi, sostituendola con l’amicizia di gruppo?
Penso che le relazioni sentimentali siano il motore primario del mio lavoro, benché di norma succedano anche tante altre cose. E in passato sono state al centro del genere romanzo nel suo complesso. In Emma, in Anna Karenina, in Le ali della colomba o Alla ricerca del tempo perduto, per esempio, le relazioni sessuali e sentimentali mandano avanti la narrazione, alimentando e arricchendo il racconto di profondità e complessità ulteriori. Fondamentalmente nel mio lavoro credo di aspirare a questo. Addentrandosi nel Ventesimo secolo, l’evoluzione del romanzo ha forse comportato un allontanamento dalla vita sentimentale per avvicinarsi a quella famigliare, e questo ha prodotto opere davvero belle e significative. Ma se il romanzo famigliare rappresenta un’importante rottura con il romanzo matrimoniale, nessuno dei due è “migliore” dell’altro. E credo che dal punto di vista sentimentale si possano ancora realizzare cose interessanti. Se io ci sia riuscita o meno, non spetta a me stabilirlo.
La distanza geografica separa Alice da Eileen e Simon per gran parte del romanzo – e quando i tre si ritrovano c’è molta emozione accumulata. Il che oggi, dopo che ciascuno di noi è stato separato dai suoi cari, appare assai pertinente. È un aspetto che ha influenzato il processo di scrittura?
Sì, credo di sì. La parte finale del libro è anche l’ultima che ho scritto, e l’ho scritta in un periodo di lockdown quasi totale, quando non vedevo amici e parenti da molto tempo. È in parte per questo, credo, che la mia esperienza di scrittura di quei capitoli, nei quali tutti e quattro i personaggi si ritrovano nello stesso luogo, è stata così intensa. L’esperienza ordinaria di dividere una casa con degli amici – mangiare insieme, aspettare che si liberi la doccia, stare alzati a parlare fino a tardi – sembrava più che mai carica di senso e sentimento. La verità è che i miei amici mi mancavano tantissimo. Avevo da sempre previsto di riunire i quattro personaggi verso la fine del libro, ma le circostanze in cui scrivevo hanno decisamente avuto un ruolo nel modo in cui l’ultima parte del romanzo si è sviluppata.
Come in tutto ciò che scrivi, anche qui i personaggi sembrano alle prese con emozioni fortissime che cercano di comprendere, come cercano di comprendere se stessi. Al tempo stesso c’è una dimensione comica, quasi che ci invitassi a considerare quanto ridicoli possiamo essere, talvolta. È una lettura corretta?Ti consideri una scrittrice comica?
Trovo che la vita sia veramente spassosa. Credo quindi che da parte mia sarebbe onesto cercare di scrivere della vita, anche in narrativa, senza tentare di rimuovere l’aspetto comico. E poi certo, i miei personaggi cercano spesso di farsi ridere a vicenda, con esiti variabili. Devo ammettere che mentre scrivevo mi hanno fatto parecchio ridere. Per me è difficile immaginare l’amicizia o l’amore senza un senso dell’umorismo condiviso – compresa la capacità di ridere di se stessi. Però cerco di non ridicolizzarli. Non credo siano più ridicoli di me – o meglio, non ho dubbi che a volte sono parecchio ridicoli; esattamente come me.
Credi che in termini di tematiche o di stile tra i tuoi libri ci sia una parentela? Esiste un mondo rooneyano che li comprende tutti, o sono più distinti di così?
Credo che effettivamente questi libri siano collegati dalla sventura di essere stati scritti da me. Non ho mai deliberatamente cercato di elaborare uno “stile”, ma come scrittrice ho molti limiti. E questi limiti potrebbero anche definirsi “stile” – è probabilmente il termine più gentile che abbiamo a disposizione. Da un punto di vista tematico i miei libri sono sicuramente simili. Come accennavo sopra, scrivo essenzialmente di relazioni sentimentali e amicizia. A mio avviso si tratta di tematiche abbastanza ampie per avere di che esplorare all’infinito, ma sono certa che altri la pensano diversamente. Di sicuro non sarebbe sbagliato osservare che i miei libri si somigliano tutti. Ci sono delle somiglianze, sono d’accordo, ma forse la cosa mi disturba meno di quanto non disturberebbe altri, perché lo stesso si può dire dell’opera di alcuni tra i miei romanzieri preferiti. Molti dei romanzi di Henry James, per esempio, sono tra loro molto simili, e le “poste in gioco” della trama sono quasi sempre di natura coniugale o sessuale. E tuttavia James è, a mio parere, uno dei più grandi romanzieri di lingua inglese – non perché i suoi romanzi sono tutti molto diversi, ma in parte perché, appunto, non lo sono.
Quando scrivi narrativa tendi a smettere di leggere quella degli altri? Trovi che questo romanzo abbia qualche affinità con altri romanzi del presente o del passato?
Di solito quando scrivo leggo pochissima narrativa. E in genere leggo probabilmente meno narrativa contemporanea di quanto non facciano altri scrittori. Intanto perché ci sono un sacco di grandi classici che non ho ancora letto, specie quelli scritti in altre lingue; e poi per me leggere romanzi che hanno contribuito in modo sostanziale all’evoluzione della forma romanzo è una sorta di formazione. Leggere libri recenti è un’altra cosa, seppur ovviamente piacevole e interessante. È solo che quando sto scrivendo preferisco non farlo.
In effetti credo che questo romanzo delle affinità con gli altri ce le abbia. Ma qui devo andarci un po’ cauta, perché non voglio dare l’impressione di paragonarmi ad alcuni tra i più grandi romanzieri mai esistiti. I miei libri preferiti mi influenzano, ma ciò non dice niente di cosa io riesca a fare di quell’influenza. Comunque sia: quando ero più o meno a metà stesura di Dove sei, mondo bello ho letto Caro Michele di Natalia Ginzburg, un romanzo talmente bello che ho quasi deciso di abbandonare la scrittura definitivamente. Un libro davvero perfetto, a mio parere. Mentre scrivevo questo romanzo ho anche letto e amato I fratelli Karamazov di Dostoevskij. E naturalmente dentro c’è Henry James. E poi, sempre mentre scrivevo, ho letto per la prima volta La coppa d’oro – altro romanzo su due coppie interconnesse e sul coinvolgimento degli uni nella vita degli altri. In realtà il nome “Felix” l’ho preso da un romanzo breve di Henry James, Gli europei, anche se quel Felix non potrebbe essere più diverso dal mio. Mi chiedo se a livello inconscio non stessi anche rievocando un altro Felix letterario che ho amato – un personaggio di NW di Zadie Smith, che fin dalla prima volta che l’ho letto è diventato in assoluto uno dei miei romanzi contemporanei preferiti. Definire queste influenze “affinità” è forse esagerato, ma è giusto dire che senza l’esempio di altri romanzi che ammiro questo libro non lo avrei potuto scrivere.
A questo proposito, la splendida epigrafe del tuo romanzo è tratta da Natalia Ginzburg. Puoi dirci che cosa rappresenta per te?
Il saggio di Natalia Ginzburg Il mio mestiere è quanto di meglio abbia mai letto sul mestiere di scrivere. Ci torno di continuo. In quel saggio Ginzburg riesce a scrivere della vita dello scrittore con assoluta serietà, senza mai scivolare in affermazioni roboanti su quello che una simile vita comporta o realizza. Scrivere, naturalmente, è stato il mestiere dei grandi romanzieri e dei grandi poeti passati alla storia, ma è stato anche il mestiere di un’infinità di persone dimenticate che hanno lavorato in silenzio e nell’ombra. Non spetta allo scrittore decidere, e nemmeno preoccuparsi della categoria in cui finirà. Lo scrittore deve semplicemente fare del suo meglio con le proprie idee, piccole o grandi che siano. Questa cosa per me è molto importante, e per il mio libro lo è a tal punto che ho voluto inserircela sotto forma di epigrafe.
Ciao, ci sentiamo la prossima settimana con la nuova puntata della nostra newsletter.
Nel frattempo, trovi Dove sei, mondo bello in tutte le librerie (fisiche e non).